L’opera si basa su un testo di Cesare Zavattini del 1941 rielaborato e riscritto.
Il testo originale colpisce per le lucide parole sulla solitudine che fa di ogni individuo un’isola in un arcipelago infinito. Al contempo ognuno è spinto verso un sentire comune, che si percepisce spesso come un limite insormontabile. Un desiderio verso un’uguaglianza difficile da raggiungere.
L’opera è esposta in una sala isolata, nella sua versione chiusa. Per poter accedere alla stanza occorre essere in due. Una volta dentro la stanza si può scegliere se osservare l’opera chiusa e uscire, oppure restare ed aprirla.
È autunno. Ivo e Mirko siedono sulla riva del fosso con il bavero rialzato. Passa uno stormo di uccelli. Ivo guarda ammirato. C’è vento, le case sono avvolte da un gran polverone. In alto sull’argine, si pedala a fatica.
Ivo legge dal giornale la storia di Giuliano, un bimbo ucciso da un autobus. Una fatalità drammatica. Mentre legge, Ivo sente come lo stridore delle ruote durante la frenata. Ferma la lettura come per fermare la corsa dell’autobus.
Mirko fa la punta ad una canna con il suo temperino. Lui, non sente lo stesso. É indurito. Lo sfiora una fantasia immotivata e incontrollabile che poi confesserà all’amico: spingere Ivo nel fosso. Si prende la testa fra le mani – Vorrei provare anche io quello che provi tu. Non è giusto.–
Ivo ha capito. Ora mostra la bellezza del campo all’orizzonte: – Guarda che bello! – Mirko tace. Le sue spalle sono dure sotto le mani di Ivo che lo muove dolcemente perché osservi il paesaggio dal suo stesso punto. (Manuela Cirino 2012)